Educare all’incontro interculturale: una riflessione di Annalisa Morello, educatrice Fami Prisma

Educare all’incontro interculturale: una riflessione di Annalisa Morello, educatrice Fami Prisma

Continua il percorso di accoglienza, mediazione culturale e accompagnamento ai servizi scolastici all’interno delle scuole del progetto Fami Prisma.

Oggi pubblichiamo una riflessione di Annalisa Morello, che lo conduce all’interno dell’Istituto Madre Teresa di Calcutta di Palermo con gli alunni della 5°A scuola primaria.

«Quando mi è stato proposto di aderire al progetto FAMI Prisma,  progetto che promuove l’inclusività a scuola, rendendola luogo aperto e accogliente, ho accettato la richiesta con grande motivazione e determinazione in quanto opportunità di crescita personale e formativa.

Il progetto ha previsto l’intervento presso l’istituto Madre Teresa di Calcutta, che vede coinvolti tre bambini del Bangladesh, frequentanti la classe primaria 5°A , approdati da poco nel territorio palermitano.

Mentirei se dicessi di non aver avuto paura di non essere all’altezza dei  bambini con cui avrei lavorato. Ma il giorno in cui ho incontrato loro, è bastato lo sguardo deciso di H, la generosità di R e la simpatia di E a farmi sentire a casa.

Gli incontri previsti sono stati finalizzati al potenziamento delle competenze linguistiche. 

Durante il nostro incontro conoscitivo, ho chiesto loro di presentarsi attraverso un disegno e la cosa che mi ha colpito profondamente è stato il loro narrarsi attraverso un’immagine che ritraeva se stessi o un oggetto a loro caro, del paese nativo, il Bangladesh. Ero grata a loro per avermi permesso di entrare metaforicamente nella loro vita, seppur ci conoscessimo da pochissime ore, in un secondo momento, ho pensato se la città di Palermo, tanto bella e caotica, nel tempo, li avrebbe fatti sentire accolti.

Prendere parte alle attività previste dal progetto è stata e continua ad essere un’occasione di reciproco arricchimento, infatti le volte in cui mi confronto con loro, mi stupisce il loro mettersi in gioco, la forza di volontà che li spinge ad apprendere in maniera repentina una nuova lingua, in un nuovo contesto, chiamati ogni giorno ad adattarsi a nuove cornici entro le quali vigono lingue e regole diverse. Parlare il bengali in famiglia e l’italiano a scuola, coniugare le proprie tradizioni con quelle degli autoctoni, sono modalità che implicano un esercizio di traduzione continua, una sfida continua. Spero vivamente che H, R ed E possano nel tempo maturare un il senso di appartenenza alla comunità.

Ci si sente appartenenti quando ci si percepisce accettati dagli altri, connessi agli altri e noi possiamo essere promotori di questo processo, educando le nuove generazioni all’incontro interculturale, promuovendo la comprensione dell’altro, senza negare la differenza, la diversità ma concependo se stessi come essere umani legati ad altri dalla necessità di reciproco riconoscimento.

Credo sia importante per i giovani autoctoni aprirsi alla realtà e al mondo perché tanti sono coloro che sembrano non cogliere la possibilità di emancipazione che dall’incontro con l’altro si potrebbe generare. Dovremmo provare a decentrare il nostro punto di vista spesso assoluto, che con fare etnocentrico ci porta a considerare il nostro gruppo di appartenenza come unico metro con cui giudicare gli altri.

In questa dimensione, dovremmo avvicinarci a ciò che siamo soliti chiamare diversità, per scoprire le differenze e sperimentare nuovi stili di vita. Conoscere un’altra dimensione culturale infatti, aiuta ad uscire dal proprio naturale etnocentrismo.

 È quindi fondamentale formare le nuove generazioni all’incontro interculturale perché esso favorisca opportunità formative privilegiate.

Quindi è educando all’incontro altrui che si promuove la comprensione degli altri, offrendo il proprio contributo con libertà, la stessa libertà di cui si determina il legame di rispetto e valorizzazione instaurato con loro in un’ ideologia emancipatrice».

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