Intervista a un educatore del SIPROIMI – Cosa significa per i rifugiati affrontare il covid-19 rispettando il decreto #iorestoacasa?

Intervista a un educatore del SIPROIMI – Cosa significa per i rifugiati affrontare il covid-19 rispettando il decreto #iorestoacasa?

Nella lotta al Covid-19 ci sono tanti fronti e gli applausi dai balconi lo hanno dimostrato.

Dapprima si voleva ringraziare e incoraggiare gli infermieri e i medici “in prima linea”, il giorno dopo si sono omaggiate le forze dell’ordine sempre per strada a garantire il rispetto delle regole. Insomma questa prima linea è apparsa da subito molto affollata.

Immaginiamo – o almeno proviamoci – che non ci sia un fronte esterno ma tanti luoghi che rappresentano una sorta di resistenza ad un nemico senza volto; un virus che può essere asintomatico oppure può infettare le nostre vie respiratorie fino a farci morire, che può nascondersi nella mano del nostro migliore amico e che ha già provocato più di 10.000 decessi in Italia in un solo mese.

Uno di questi luoghi di “resistenza” è sicuramente rappresentato dai servizi sociali, ovvero da quelle strutture che accolgono persone in difficoltà, bisognose di cure e che necessitano dell’aiuto dello Stato per esercitare a pieno i loro diritti umani, il diritto all’uguaglianza e alla diversità.

Le strutture socio-assistenziali sono per lo più residenze quindi per i loro ospiti #iorestoacasa ha significato una permanenza forzata, privata di attività all’aperto e di contatti con l’esterno (visite familiari, incontri terapeutici). Per gli operatori, invece, questo slogan ha significato un impegno a rimanere al proprio posto, a casa di qualcun altro, a colmare i vuoti lasciati dai provvedimenti restrittivi e riempiti dalle angosce dei più deboli.

Antonio è educatore presso un Siproimi MSNA (Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati) in provincia di Messina, un servizio che attualmente accoglie  nove migranti provenienti da Gambia, Mali, Guinea Bissau, Bangladesh, Nigeria ed Egitto.  Il Siproimi, meglio conosciuto come ex SPRAR, nasce in Italia per offrire la cosiddetta assistenza secondaria ai beneficiari di protezione internazionale, realizzando percorsi individuali di integrazione sociale ed economica, quindi di riscatto umano.

Parliamo con Antonio, di come si sta svolgendo il suo servizio in questo particolare momento storico.

Lo scorso 23 febbraio, in seguito alla scoperta del primo paziente affetto da coronavirus in Italia, sono state annunciate dal Governo le misure urgenti per il contenimento dell’emergenza epidemiologica da COVID-19. Come avete spiegato ai ragazzi cosa stava accadendo?

Il coordinatore del servizio lo ha comunicato ai ragazzi, noi  educatori abbiamo affisso negli spazi condivisi dei cartelli con le informazioni e indicazioni sui comportamenti da tenersi, dal lavarsi le mani e alle distanze da tenere tra l’uno e l’altro. I ragazzi hanno inizialmente sottovalutato la gravità della situazione, come tutti noi non si sono resi conto di che cosa stava succedendo forse perchè noi occidentali tendiamo a considerarci “invulnerabili”. Poi la situazione si è aggravata, non era possibile uscire nè fare attività motoria, così ho avuto modo di discutere con loro, di aiutarli a comprendere.

Come sono arrivati a conoscere a fondo le dimensioni dell’emergenza, quali sono i loro canali d’informazione?

Gli ospiti dello SPRAR sono molto attenti a quello che succede. Non guardano la TV ma parlano con i coetanei, anche quelli in altre parti d’Italia, usano i social e, sentendo i parenti, sono venuti a sapere che il virus è arrivato anche nei loro Paesi d’origine. Nel momento in cui hanno capito che il Paese che li ospita è colpito in maniera drammatica da un’epidemia, la preoccupazione è diventata sempre più tangibile. Durante il mio turno io in genere riporto i dati giornalieri del bollettino diffuso dalla protezione civile, creando così l’occasione per parlarne insieme, raccogliere le loro impressioni o preoccupazioni.

In Europa non abbiamo esperienza di una emergenza sanitaria così grave, solo memoria. Gli africani invece hanno l’esempio dell’ebola che si è diffusa in parte dell’Africa nord-occidentale (Guinea, Liberia e Sierra Leone) Mnel 2014, questo secondo te li ha aiutati a vivere diversamente la crisi?

Nel momento in cui il coronavirus è arrivato in Italia hanno fatto subito un paragone con l’ebola e con le loro esperienze legate a questa epidemia e mi hanno raccontato degli episodi rispetto a questa malattia così devastante. Questo li ha spaventati ancora di più.

Che sfumatura prende la paura di ammalarsi e, nel peggiore dei casi, di perdere la vita per dei ragazzi lontani migliaia di chilometri da casa, fuggiti da zone pericolose o violente?

Trovandosi in Occidente, e  in un mondo presumibilmente migliore da quello da cui provengono, ragionano sul fatto di essere passati da una condizione di “apparente” salvezza ad una in cui si materializza una nuova minaccia.  L’ultimo momento in cui si sono sentiti così insicuri rispetto alla loro sopravvivenza è stato sicuramente il viaggio dalla Libia in Italia.

Sono tutti ragazzi appena maggiorenni e devono scommettere su sé  stessi, costruire un progetto di vita scontrandosi con tutta una serie di difficoltà, dal razzismo ai paletti messi sia dalla politica che dalla società.  Si ritrovano a combattere con un nemico che non ha volto, il razzista lo vedi, il mare che ti travolge e ti fa perder la vita mentre tu sei su una barca lo metti in conto, ma la malattia non ha volto e ti può colpire attraverso un semplice contatto. È un nemico, un insidia rispetto alla svolta che loro sentono di aver avuto arrivando in Italia. Il Covid mina la loro possibilità di farcela.

Cos’è cambiato nel vostro servizio?

È chiaro che non facciamo attività esterne se non la spesa settimanale, le ricariche, il pocket money. Se gli ospiti hanno bisogno di qualcosa sanno di potersi rivolgere alla persona che sta per entrare in turno. Paradossalmente passo più tempo con loro rispetto a prima perché non fanno più attività come la scuola o le attività sportive, quindi ho la possibilità, ad esempio, di dedicarmi di più al potenziamento individuale della lingua. Mi sono accorto di alcune lacune scolastiche a cui prima non avevo fatto caso.

Di che cosa sono stati privati, in particolare, i ragazzi?

Ribalto la domanda e ti dico cosa questa situazione ha aggiunto alle loro incertezze, alle loro fragilità: ad esempio, aggiunge l’ansia dovuta all’annullamento di appuntamenti, colloqui, udienze che vengono messe in stand-by. Questo permette a dei fantasmi, che già ci sono, di ritornare nella loro mente. Infine, hanno la stessa ansia che abbiamo noi, dovuta al fatto che non riescono a vedere la fine di questo momento di costrizione.

C’è un attività a cui stanno rinunciando e che per loro è una rinuncia pesante da sopportare?

Si, il calcio, uno sport che a loro piace tantissimo sia guardare che praticare. L’attività sportiva è importante per la salute psico-fisica e la socializzazione dei ragazzi, è un prezioso strumento di integrazione. Nell’ambito di un progetto CONI in corso con la FGC, si allenavano due volte a settimana e avrebbero dovuto partecipare ad un torneo nazionale di tutti gli SPRAR che si doveva svolgere a maggio e che quasi sicuramente verrà annullato. È un’esperienza che loro non riusciranno più a vivere.

Sono rispettosi delle misure restrittive?

Assolutamente sì.

Pensi di essere entrato più in empatia con i ragazzi, c’è qualcosa che ti ha fatto comprendere meglio la loro condizione esistenziale?

Qualche giorno fa un ragazzo molto introverso mi ha confessato di avere paura, un altro mi ha chiesto quanti morti ci fossero stati e quando gli ho risposto che erano 837, lui ha esclamato “ma come è possibile, sono numeri troppo grandi!” e in questa domanda ce n’era un’altra ancora “quando finirà questa cosa?”. Mi sento di poter alleviare la mia e la loro ansia svolgendo il mio servizio in una situazione emergenziale e sono consapevole che noi operatori diamo loro una possibilità di confronto e di conforto che altrimenti non avrebbero.

Per quanto possa essere drammatico ciò che stanno vivendo, ho l’impressione che la malattia sia sempre un male minore rispetto a quello che può fare un uomo su un altro uomo, e che continua a fare.

Il presente contributo, scritto da Erika Bucca, componente della redazione del progetto Prisma, è pubblicasto su:

https://metismagazine.com/2020/04/03/intervista-a-un-educatore-del-siproimi-cosa-significa-per-i-rifugiati-affrontare-il-covid-19-rispettando-il-decreto-iorestoacasa/

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