È scritto nel preambolo della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani che la più alta aspirazione dell’uomo è godere della libertà di parola e della libertà dal timore e dal bisogno. Nei servizi sociali, e in particolar modo quelli dedicati all’accoglienza dei cittadini migranti da Paesi dal quadro geo-politico complesso, la mediazione culturale e linguistica è fondamentale per tutelare tali diritti.
Nei Punti di Accesso ai Servizi (PAS) della Regione Siciliana presenti a Messina, Palermo e Catania e finanziati da FAMI PRISMA, il mediatore è una delle figure professionali che gestisce le richieste di aiuto con l’assistente sociale. La mediazione è una cosa che ha sempre amato Martina Maggio, io sono quello che faccio, lo scrivo sempre nella presentazione delle mie candidature. Martina è mediatrice culturale al PAS di Messina, dove si occupa di favorire la comprensione e la comunicazione tra beneficiario e operatore.
Perché i cittadini stranieri, per fare una determinata pratica, si rivolgono al PAS e non all’ufficio preposto ?
«Partiamo dal presupposto che chi ha bisogno di aiuto, soprattutto chi vive in Italia da poco, non ha sempre chiaro quale ufficio può rispondere al proprio bisogno e anche quando lo sa non sempre riceve delle risposte chiare e in tempi stretti. Ci sono anche difficoltà linguistiche o nell’esplicitare la propria necessità. Il PAS non si limita a condurre una persona ad un determinato servizio, tutti noi sappiamo bene che i beneficiari non sono sempre pienamente consapevoli del proprio bisogno».
Qual è la richiesta di aiuto più frequente per chi si rivolge a voi?
«Le richieste avvengono per lo più per il permesso di soggiorno, cambiano le leggi sull’immigrazione e ogni volta bisogna capire che strada percorrere per non essere rimandato al Paese da cui ci si è allontanati. Inoltre si rivolgono a noi soprattutto per questioni sanitarie, prescrizioni e visite mediche e anche per la scuola. Ogni caso è comunque particolare».
Cosa vuol dire fare la mediatrice dentro un PAS?
«In realtà i ruoli si mescolano, è un lavoro di squadra, i confini ci sono per le faccende burocratiche, le firme, ma nel momento in cui siamo con il beneficiario ognuno contribuisce con le proprie risorse al processo di aiuto.
Al PAS sono venuti numerosi cittadini stranieri che si trovano in Italia da molto tempo, più che una mediazione linguistica per loro è necessario tradurre una richiesta magari un po’ sgangherata in un bisogno concreto, reale. Io lavoro soprattutto a stretto contatto con Giosy Mandolfo, l’assistente sociale».
Come si svolge la fase dell’ascolto al Centro polifunzionale di Messina?
«L’ascolto è la prima fase, la più delicata. Quando una persona viene da noi con una necessità, anche molto pratica e semplice da risolvere, cerchiamo di capire com’è la sua quotidianità, che lavoro fa, se ha un tetto sopra la testa. Una volta una signora marocchina è venuta per richiedere il rimborso di una bolletta della luce ed è emerso il suo desiderio di studiare; non l’aveva mai potuto fare, così abbiamo fatto la sua iscrizione a scuola. Questa è una cosa molto più grande del bisogno in sé, una cosa che la farà stare bene a lungo termine. Era venuta per una pratica e sono emersi dei bisogni che non pensava avrebbe affrontato».
Non è semplice ottenere la fiducia di qualcuno che si sente “straniero”, ottenere delle informazioni che servono per aiutarlo e non da usare contro di lui?
«Questo problema è reale e continua a esserci, nelle mie esperienze in vari servizi di accoglienza, ho capito che nel tempo hanno imparato a fidarsi solo della loro comunità o a gestire da soli la propria problematica. Per questo motivo paradossalmente è più difficile parlare con un immigrato ormai stabile nel nostro Paese da molti anni, che con un ragazzo appena arrivato. A Messina, il PAS ha iniziato a ingranare quando abbiamo cominciato a dialogare con le associazioni di migranti, quella musulmana, srilankese, filippina».
Ci puoi raccontare un episodio che hai vissuto, nell’incontro con il beneficiario straniero, in cui hai capito di aver usato la parola giusta per aprire un dialogo autentico?
«Mi viene in mente una signora srilankese anziana, all’inizio si manteneva molto sulle sue, parlava solo del motivo per cui era venuta. Ad un certo punto le ho chiesto se potevamo chiamarci per nome, perché avrebbe potuto essere mia madre, allora qualcosa è cambiato. Mi ha detto che potevo chiamarla Violet, subito dopo ha confessato che non sopportava suo marito. Ho capito che ci eravamo “riconosciute” l’un l’altra. C’è sempre la parola chiave che ti fa conquistare la loro fiducia, anche il fatto di vederli spesso, il più delle volte non si tratta di pratiche che si risolvono in una volta, ad un certo punto diventano “di casa”».
In questo particolare momento storico, caratterizzato da migrazioni globali, credi che il mediatore culturale abbia un giusto riconoscimento?
«Credo che non si sia capita ancora a fondo la necessità del mediatore, non solo nel servizio sociale, anche in altri ambienti: il lavoro, la scuola. Viviamo in un mondo multiculturale, la mediazione probabilmente non è solo quella con gli stranieri, è anche con il vicino di casa».